Orafi etruschi in Apulia

06 agosto 2021 06 agosto 2021

Quando gli orafi etruschi realizzavano le splendide creazioni che possiamo ammirare nella ricostruzione della tomba di Poggio Pelliccia, la grande tradizione delle oreficerie tarantine – che dal tardo IV sec. a.C. avrebbe condizionato la moda di un ampio settore dell’Italia centro-meridionale, Etruria compresa – era ancora lontana da venire. In epoca arcaica gli unici ornamenti in metallo prezioso occasionalmente attestati nelle tombe di Taranto sono spilloni in argento e, dalla fine del VI sec. a.C., rari diademi a fascia in lamina d’argento ricoperta di foglia d’oro. Per spiegare la relativa scarsità degli ornamenti personali metallici in questa fase – solo in parte imputabile a saccheggi antichi – dobbiamo forse chiamare in causa costrutti ideologici che possono aver limitato l’esibizione del lusso nella sfera funeraria, affidando ad altri mezzi l’espressione della stratificazione sociale. Tali limitazioni non sembrano essere esistite presso le popolazioni non greche dell’Apulia. Ne sono testimonianza le splendide oreficerie di Ruvo – nell’antica Peucezia, corrispondente al settore centrale della Puglia attuale – conservate al MArTA: una collana con vaghi biconici baccellati analoghi a quelli della collana di Poggio Pelliccia, alternati a pendenti con teste femminili a sbalzo dai tratti ionizzanti; due fibule ad arco semplice di eccezionali dimensioni; pendenti intagliati nell’ambra; due “cerchi apuli”* (probabili fermatrecce) costituiti da un cilindro di lamina aurea a una cui estremità si applica una cornice circolare, decorata con fili godronati* e linee ondulate in filigrana*. Nelle oreficerie diffuse nelle tombe ruvestine tra il VI e la metà del V sec. a.C., prima che Taranto imponesse il prestigio delle sue creazioni, sembra possibile riconoscere il prodotto di maestranze etrusche, forse in parte operanti a livello locale alle dipendenze della facoltosa aristocrazia peuceta.

Forse non tutti sanno che…
* Con l’espressione ‘cerchio apulo’ si indica convenzionalmente un oggetto cilindrico in lamina d’oro forato al centro, diffuso esclusivamente nella parte centrosettentrionale dell’Apulia (Peucezia e Daunia). Inizialmente interpretati come supporti per balsamari, questi elementi tendono oggi a essere ritenuti ornamenti per le orecchie o, più probabilmente, per l’acconciatura femminile (fermatrecce).
* La godronatura, in oreficeria, è una tecnica che consente di imprimere su un filo d’oro una fitta serie di incisioni facendolo ruotare ed esercitando su di esso una pressione perpendicolare con una lama.
* La filigrana è una tecnica consistente nell’applicare, mediante saldatura, dei sottilissimi fili d’oro a una lamina, così da formare disegni più o meno complessi.

Contesto

Nell’ottobre 1907, durante i lavori di costruzione del muro di cinta dell’Arsenale Militare, si intercettò un settore della necropoli tardo-arcaica. Fra le sepolture messe in luce si distingue la tomba 8, consistente in un sarcofago in terracotta che le ridotte dimensioni e la mancata conservazione delle ossa inducono ad attribuire a un individuo non adulto. Come in altre deposizioni infantili documentate a Taranto nella stessa fase, buona parte degli elementi di corredo risultava deposta all’esterno del sarcofago, in particolare lungo la fiancata nord. La scelta di forme ceramiche legate al consumo del vino – coppe per bere (skyphoi e kylikes) e un vaso contenitore (stamnos) –, di ridotte dimensioni, rappresenta una sorta di proiezione del ruolo sociale che il defunto avrebbe acquisito con la maggiore età, insieme al diritto di prendere parte al simposio. Del corredo facevano parte anche oggetti in pasta di vetro e faïence di produzione orientale, fra i quali un leoncino accovacciato, e due alabastra* in alabastro, in apparenza i soli elementi collocati all’interno del sarcofago. Ma il tratto di maggiore distinzione della tomba consiste nella splendida protomemaschera* in terracotta policroma che ne copriva la testata est: riproduce un volto femminile con capigliatura a piccoli riccioli disposti a raggiera intorno alla fronte, al di sotto di un ampio diadema coperto dal mantello (himation) tirato sul capo. Simili oggetti, perlopiù dedicati nei santuari come offerte votive, ricorrono raramente nella necropoli. Un confronto è fornito dalla maschera rinvenuta nel 1885 in una tomba di via S. Lucia (Villa Ramellini), anch’essa riferibile a un bambino. Evocando la presenza della divinità, la maschera potrebbe aver assicurato una speciale protezione a defunti altrettanto speciali, per la loro condizione sociale non meno che per la giovane età. La ricostruzione riproduce in maniera realistica la situazione della tomba all’atto del rinvenimento, in base alle indicazioni contenute nel giornale di scavo.

Forse non tutti sanno che…
* Un alàbastron (plur. alàbastra) è un contenitore per unguenti profumati di forma allungata, in alabastro o in altro materiale.
* Una protome-maschera è una rappresentazione abbreviata e schematica della figura umana, che al di sotto del volto si prolunga in forma di semicilindro a riprodurre idealmente il busto.

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